Diciamo subito che il coleottero
illustrato qui sotto, lungo circa un centimetro e mezzo, appartiene al genere Cicindela (pronunciare con l’accento
sulla e). E’ un corridore instancabile e rapidissimo: lo sa anche Roberto, che
mi ha detto di averlo inseguito a lungo, faticando non poco per riuscire a
fotografarlo. “Sei stato fortunato che non abbia preso il volo con la stessa
facilità di una mosca per posarsi a pochi metri di distanza, giocando a farsi
rincorrere in quel modo per un bel po’ prima di piantarti in asso e sparire”
gli ho risposto; è infatti questa la tattica abituale con cui le Cicindele si
sottraggono a un possibile nemico.
Cicindela gallica, agosto, Monte Legnone (LC). |
Riguardo alla loro velocità ecco
quanto riporta un sito Internet curato negli Stati Uniti, dove è molto diffuso
un certo tipo di volgarizzazione scientifica spicciola a colpi di misure,
numeri, percentuali e paragoni. Dopo aver riferito che una Cicindela può
raggiungere i 9 km orari, il compilatore aggiunge che in proporzione alla
lunghezza dell’insetto tale prestazione supera di circa 22 volte quella di uno
sprinter olimpionico, il quale per eguagliare il coleottero dovrebbe filare a
770 chilometri all’ora! Ma lasciamo queste osservazioni bislacche ai
nordamericani, spesso un po’ infantili, e veniamo a considerazioni più
pertinenti all’argomento secondo la nostra mentalità.
Dal punto di vista della
classificazione, alle Cicindele è successo esattamente il contrario di ciò che
è accaduto ad altri gruppi di Coleotteri (vedi su questo blog il post “maggio=Maggiolino”): un tempo inquadrate come famiglia a sé stante col nome di Cicindèlidi,
attualmente quasi tutti gli autori le considerano una sottofamiglia dell’immensa
famiglia dei Caràbidi. Nel mondo ne sono state classificate a tutt’oggi oltre
2000 specie, di cui meno di una ventina presenti in Italia. Le dimensioni
massime sono raggiunte dalle Manticora
delle regioni desertiche dell’Africa meridionale, che possono superare i 6 cm.
Abbiamo a che fare con dei formidabili
carnivori, tanto che in inglese sono detti tiger beetles, scarabei
tigre. Il paragone fu del resto escogitato già da Linneo, che nel suo “Sistema
della Natura” (la cui decima e ultima edizione, la più completa, è del 1770)
aveva scritto: “Cicindelae insectorum tigrides veloces”, le Cicindele sono le veloci tigri
degli insetti.
Come tali, questi coleotteri – che
attaccano le loro prede in corsa o addirittura in volo – sono ottimamente
equipaggiati per la vita di rapina: osservandoli da vicino si è subito colpiti
dalle loro grandi mandibole, slanciate e acutissime, a forma di falce dal bordo
seghettato e munita di quattro lunghi denti. Quando si chiudono, queste specie
di cesoie si incrociano per un buon tratto e non lasciano scampo alle vittime,
che possono esserne letteralmente tagliate in due come da un colpo di forbici.
Carnivori agguerriti sono anche le
larve, che però non cacciano in movimento ma mediante una curiosissima tecnica
di agguato, per la quale la forma del loro corpo si è modificata vistosamente:
osservate al riguardo le illustrazioni a tempera qui di seguito, che si
riferiscono alla specie più diffusa in pianura e alle basse altitudini, la Cicindela campestris (vi anticipo che le
due tavole sono tratte da uno splendido libro divulgativo d’altri tempi sulla
vita dei Coleotteri, Caccia grossa fra le
erbe, del quale riparlerò alla fine di questa chiacchierata).
Il vermiciattolo che nasce dall’uovo
deposto in primavera nel terreno si scava come tana una galleria cilindrica
verticale profonda una ventina di centimetri; il corpo è indifeso ma il
protorace e la testa, armata di grandi mandibole a falce disposte
verticalmente, sono corazzati e insieme chiudono con precisione l’imboccatura
del sotterraneo. La larva attende immobile per ore e ore finché un insettino o
un ragno passa sopra il tappo vivente: allora il predatore lo afferra e si
lascia cadere con il suo bottino in fondo alla galleria.
Questa viene man mano ingrandita e
approfondita col crescere dell’animaletto, che in autunno ne chiude lo sbocco e
si rifugia sul fondo, a passare la stagione fredda in una specie di letargo. In
primavera riprende la solita vita fino all’autunno successivo, epoca in cui la
larva, che dalla nascita ha subito tre mute, è finalmente pronta per la
metamorfosi. Blocca di nuovo l’ingresso della galleria e a una certa profondità
la allarga facendone una celletta, in cui si immobilizza per trasformarsi prima
in pupa (l’equivalente della crisalide delle farfalle) e poi in insetto
perfetto. Quest’ultimo dopo una breve puntata all’esterno torna a interrarsi
per svernare; ricompare nella primavera seguente, cacciando, riproducendosi e
vivendo fin verso la fine dell’estate.
Pupa e spoglia larvale (vecchia pelle della larva) di Cicindela campestris nella celletta in cui avviene la metamorfosi (spaccato).
Tavola di Mario Sturani, da "Caccia grossa fra le erbe".
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Il termine Cicindela ci è giunto dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, grande naturalista romano del I
secolo, che però chiamava in questo modo la lucciola. Per quanto io ne sappia,
l’unico studioso che non si sia limitato a riferirlo ma abbia tentato di
ricostruire l’origine della parola fu nel 1917 l’entomologo tedesco Schenkling,
secondo il quale Cicindela è da
ricollegare al verbo latino candère,
risplendere (da cui provengono anche candela,
candore ecc.), con il raddoppiamento
della sillaba iniziale per indicare azione intensiva e il conseguente cambio
della vocale da a in i, secondo un’altra regola della lingua.
Insomma, il nome della Cicindela di Plinio significa “molto splendente” o “che
non cessa di splendere” e per questo oltre che alla lucciola è stato più tardi
attribuito da altri autori a diversi Coleotteri dai colori metallici, come le
Cetonie o le Cantaridi. Finalmente, nel ’700 Linneo lo riprenderà per
applicarlo in modo ufficiale e definitivo agli insetti di cui stiamo parlando.
E ora finiamo di classificare il
soggetto delle foto di Roberto, che lo ha incontrato sul Legnone intorno ai 2200
m di quota. Si tratta della Cicindela
gallica, una specie che i naturalisti, con un termine specialistico,
definiscono eualpina (dal prefisso eu-
che nel solito greco antico significa “bene, proprio, davvero”). Abita cioè
esclusivamente le Alpi, tra i 1500 e i 2700 m, dalle Basses Alpes francesi fino
al Tirolo e alla Baviera meridionale (in Italia la si trova dalle Alpi
Marittime fino all’alta valle dell’Adige).
Qualche curiosità su alcune sue
parenti esotiche. Le Cicindele contano il maggior numero di rappresentanti nel
sud-est asiatico, dove alcune specie, come quelle del genere Tricondyla, vivono nel folto delle
foreste. Poiché le larve non possono scavare le loro gallerie nel terreno,
continuamente ricoperto dal cadere delle foglie, si sono adattate a ricavarle
nei grossi rami marcescenti di alberi morti o malati!
Una Cicindela del Messico emana un
gradevole aroma, cosicché le popolazioni locali ne fanno un infuso in alcool
per ottenerne uno speciale liquore. Va detto come anche la nostra Cicindela campestris a volte diffonda un
profumo che ricorda la rosa o la violetta.
Quanto alle grosse Manticora africane, veramente
impressionanti per le mandibole smisurate e il grande corpo tozzo, una di esse
compare in un episodio di un romanzo di Jules Verne, Un capitano di quindici anni. Dato che lo scrittore francese si
ispirava spesso ad argomenti scientifici ed era un buon conoscitore di storia
naturale (basti pensare alle sue accurate descrizioni di fauna marina in Ventimila leghe sotto i mari), nella
circostanza non ci sarebbe niente di insolito, se non fosse che in quelle righe
l’autore ha probabilmente nascosto uno dei suoi “scherzetti da studiosi”, vale
a dire in grado di essere capiti solo da un pubblico competente.
Specifichiamo. Nella vicenda in
questione uno dei personaggi, che in Africa è stato rinchiuso dentro un terreno
cintato (dove però nessuno lo sorveglia), scopre una possibile via di fuga
grazie a una Manticora, della quale
per curiosità sta seguendo le peregrinazioni. Dopo averlo guidato verso la
salvezza, l’inconsapevole alleato a sei zampe si congeda volando via; ma come
sanno gli addetti ai lavori, una Manticora
non potrebbe assolutamente farlo, dato che queste grosse Cicindele hanno perso
l’uso delle ali.
Permettetemi di concludere con qualche
caro ricordo personale. Proprio alla Cicindela campestre è dedicato per intero il
primo capitolo del meraviglioso volume che ho già ricordato, “Caccia grossa fra
le erbe”, scritto per i ragazzi dal naturalista torinese Mario Sturani nel lontano
1942: ormai da tempo esaurito quando mio padre ne scovò e me ne regalò una
copia nel 1953, quel libro ha cambiato letteralmente la mia vita.
Avevo allora sette anni e quelle
pagine, che con l’entusiasmo dei bambini lessi e rilessi fino a impararne
lunghi brani a memoria, mi stimolarono a dedicare sempre maggior attenzione
agli “scarabei” che incontravo durante le passeggiate con papà nelle belle
campagne del Piemonte, dove trascorrevo abitualmente le vacanze al paesino dei
miei nonni materni. A quindici anni, nel 1962, deciso a fare dell’osservazione
dei Coleotteri un serio hobby scientifico incominciai anche a raccoglierli. Pur
senza aver mai considerato la collezione in sé e per sé come il mio obiettivo
principale continuo ancor oggi, a distanza di oltre mezzo secolo.
Nel 1964 ebbi la fortuna di conoscere
di persona l’autore del mio adorato libro: trattandosi di una persona
affabilissima, incominciai a fargli visita diverse volte all’anno e con lui
nacque un’amicizia che sono orgoglioso di aver vissuto. Mario Sturani, pittore
e ideatore di ceramiche d’arte, non era uno scienziato professionista ma si
dedicava all’entomologia per pura passione, studiando in particolare i cicli
vitali dei Coleotteri Carabidi; in proposito elaborò pubblicazioni apprezzate
dagli specialisti di tutto il mondo. E’ famoso tra l’altro per aver riscoperto,
negli anni 40 del secolo scorso, una rara, grande e bellissima specie delle
Alpi piemontesi allora ritenuta estinta, il Carabus
olympiae, che riuscì a far riprodurre in allevamento, descrivendone la
completa biologia fino ad allora sconosciuta.
Se Roberto dovesse fornirci lo spunto
per un prossimo post fotografando qualche specie di Carabus mi darà modo di riparlare di un grande, indimenticabile
maestro.
Giancarlo Colombo
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